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D-Anger

Immaginate una serata tranquilla in famiglia. I bambini che giocano, la tavola apparecchiata, la televisione accesa. In sottofondo la pubblicità racconta di detersivi miracolosi che cancellano le macchie e gli odori. Tutti, anche il nostro. E ancora, di auto che sfidano tempeste di sabbia e di ghiaccio e affrontano salite impraticabili. Di mamme buone e papà comprensivi che guardano con occhi dolci il bimbetto pestifero. Loro sì che sanno domarlo: basta il biscotto di una marca piuttosto che un’altra a compiere il miracolo. O quel formaggino, solo quello però, che si scioglie in bocca e poco impegna. Un genio, l’inventore. Cambia la scena. La presentatrice ammiccante di un telequiz applaude al nuovo vincitore mentre scorrono i titoli di testa. Il perdente intanto sorride, il suo istante di gloria lo ha avuto e per un attimo, ma solo un attimo, qualcuno si ricorderà di lui. Un breve stacco e arrivano le news. Il telegiornale. Quando eravamo piccoli era dominio degli adulti, prima di pranzo e di cena. Mai durante. Un misto di parole, risate, musica. Facce. E grida, spari, sangue. Polvere, esplosioni. Riprese a tutto schermo di bambolotti rotti che dormono, ma sono bambini. Bambini morti. E bocche, tante bocche che gridano, occhi che guardano un cielo che non manda aiuto.

Amore, com’è andata a scuola oggi? Hai fatto arrabbiare la maestra? Mangia che si raffredda. E in piscina? Hai nuotato bene? Domani hai lezione di piano, mi raccomando. Lo porti tu? Io poi vado a riprenderlo. Anche questi sono bambini. I nostri. Gli altri, no.

La morte e la vita diventano commedia. Come riconoscere il sangue vero dal sangue finto? L’odore forse. Ma quale odore, se il detersivo lo porta via? Comunque, dallo schermo non arriva. Senza volerlo, abbiamo costruito una fortezza intorno a noi. Vestiamo una corazza invisibile per proteggerci dai dolori altrui, impegnati a curare- male- i nostri. E’ l’era della solitudine. Quella malata, però. Che ha sostituito, brusca a repentina, la solitudine bella, quella del pensiero e della riflessione. La solitudine che accoglie il dolore e lo abbracccia per trovarvi rimedio, soprattutto per offrire pietà. Pietas.

Are you lost in the world like me? canta Moby. Sei perso nel mondo come me?

In questo deserto artificiale che ci accompagna, fedele e morbosa guardia del corpo, la solitudine sgretola ogni certezza . Ci sentiamo così soli da aver paura perfino di noi. Congelare le relazioni sociali è la nostra difesa, e questo vale anche per l’intimità della nostra casa. Dove, fra le mura vere, si alzano mura invisibili e invalicabili. Se non ci abbracciamo, se non ci tocchiamo, se non ridiamo e piangiamo insieme, come facciamo a “sentire” l’Altritudine? Incapaci di gestire le cose della vita, le demandiamo: esiste un Maestro per ogni cosa, che sa di noi più di noi. Ma chi è il Maestro del Maestro?

 

Poi accade che un giorno all’improvviso c’è il silenzio dell’anima. In quell’attimo miracoloso di sospensione che ognuno dovrebbe augurarsi di incontrare, di solitudine vera dove torni uomo, parte integrante di quella comunità che si chiama mondo, quel bambino freddo nella polvere è anche tuo. In quell’attimo, le orecchie diventano vive e prendono tutte le grida, e gli occhi vedono tutte le crepe. E hai rabbia, e paura, e piangi come non ti accadeva da tanto.

Paolo Balboni è un viaggiatore e finora ci ha abituati a intensi ritratti di persone e luoghi che, pur fermando un tempo preciso, non conoscono il tempo. Come un esploratore, raggiunge le radici dei popoli, si infila nelle pieghe, va giù, nel profondo, e ci restituisce attraverso la fotografia, storie e intrecci straordinari.

Anche questo è un viaggio. Al centro di sè. Un fatto divenuto purtoppo consueto- una serie di attentati a catena nelle zone calde del mondo, visto in tivvù in quel miracoloso attimo di sospensione- mette nudi davanti alla distruzione. Cadono i paraventi, si azzerano i codici di protezione. Esplode una rabbia nuova, Balboni le da un nome. La battezza D-Anger, perchè di battesimo si tratta. Dentro ci sono disprezzo, speranza, rinascita, pericolo, paura, panico, paranoia, fallimento, ansia, disperazione, ossessione, angoscia, solitudine, odio, avidità, rabbia, delirio, desiderio, rammarico. Non esistono anestetici per placarla. Sono sentimenti antichi, ora addormentati. Ma quando si svegliano, pretendono di recuperare il tempo perduto nel lungo sonno.

Balboni è fotografo. La macchina fotografica è il suo mezzo per raccontare storie. In questo caso, dietro l’obiettivo c’è il suo occhio. Ma se il mezzo è lo schermo di un computer o di un televisore, cosa accade nel momento in cui essi trasmettono immagini e suoni del dolore? Queste scatole vuote sono vuote davvero?

In quell’attimo miracoloso di sospensione, Paolo ha fotografato a distanza molto ravvicinata gli schermi che trasmettevano le notizie degli attentati, per estrarre una sorta di codice di dna dei sentimenti e raccontare dall’interno il passaggio delle immagini.

 

Il risultato è sorprendente e in perfetta linea con l’oggi. Più l’immagine è cruenta, più i pixel sono colorati: il rosso è di fuoco, il verde è di smeraldo, il blu ha continue variazioni:ora è cielo, ora è oceano. Le schermate hanno la sacralità delle vetrate in certe chiese gotiche. C’è vita in questi pixel che trasmettono la morte. Tutto torna, in fondo. La morte la si capisce in tutta la sua drammatica epicità, solo se si frequenta assiduamente la vita. Se si abbandona il carcere artificiale in cui ci teniamo prigionieri. Primo divieto, pensare.

Ricordate questa parola. Fissatela nella memoria: D-anger. Con lei nasce una spiritualità nuova e queste fotografie la testimoniano.

 

21 scatti per 21 movimenti dello spirito. Ognuno è un racconto. A colori. Guardateli. Poi chiudete gli occhi e quando li aprire, fatevi una domanda. Anzi, due. Cosa resta di questi pixel? Sono semi da coltivare per renderci, se non migliori, almeno consapevoli? Questo vale per ogni opera. Questo è il compito che spetta all’arte.

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